ITALIANI DALL’ERITREA

LA LUNGA STRADA VERSO CITTADINANZA E IDENTITÀ

Ainom Maricos, ex consigliere comunale, e Medhin Paolos, regista, sono due generazioni di attiviste italo-eritree di Milano che discutono le loro esperienze di identità, cittadinanza e razzismo istituzionale in Italia – e le conseguenze per le comunità nere.

JULIANA DA PENHA E ALESSIA ALBERTIN

September 13, 2020, 12:00 CET | Updated on October 12, 2020, 14:43 CET

Gruppo di donne eritree, Milano, 1983

Credito Fotografico: Vito Scifo e Lalla Golderer, Eritrei a Milano Archivio di Etnografia e Storia Sociale – Regione Lombardia

“Via Ainom Maricos”, ci racconta Ainom Maricos, 62 anni, ex consigliera comunale di Milano di origine eritrea, con un misto di orgoglio e gratitudine. Ainom è stata una delle prime assistenti sociali di origine straniera presso un’istituzione pubblica italiana. Si è commossa per un omaggio che ha ricevuto per il suo lavoro con i migranti e i rifugiati dal progetto “Raccontami una strada”, nella città di Uggiano la Chiesa, nel sud Italia.

In questa città hanno dedicato, per un giorno, una strada ad alcuni attivisti durante la commemorazione della Giornata Internazionale del Rifugiato, il 20 giugno 2020, come riconoscimento del loro impegno sui diritti dei migranti e dei rifugiati.

La strada che Ainom ha percorso per arrivare lì è stata lunga. E lo è ancora oggi per le giovani generazioni con discendenze africane come Medhin Paolos, 39 anni, regista, fotografa e musicista elettronica italo-eritrea. Fin da quando Medhin era molto giovane, ha capito e sentito “sulla mia pelle il fatto che alcune persone mi leggono come un problema per il semplice fatto che mi leggono come estranea”.

Nel suo percorso di scoperta di sé, è diventata attivista della “Rete G2 – Seconde Generazioni”, un’organizzazione che si batte per il diritto alla cittadinanza dei bambini nati in Italia da genitori stranieri, la cosiddetta “Seconda Generazione” come Medhin, in quanto la legge italiana sulla cittadinanza (Legge 91 del 1992) esclude chiunque non abbia un genitore italiano dall’ottenere la cittadinanza italiana alla nascita.

L’esperienza di Medhin come “seconda generazione” e l’esperienza di Ainom come “prima generazione” rivelano come eritrei e altri migranti di origine africana attraversino le intersezioni di razza e nazionalità in Italia.

Gruppo di donne eritree, Milano, 1983

Credito Fotografico: Vito Scifo e Lalla Golderer, Eritrei a Milano Archivio di Etnografia e Storia Sociale – Regione Lombardia

Ainom Maricos

 

Medhin Paolos

 

Ainom Maricos

Photo Credit: Ainom Maricos

Medhin Paolos

Photo Credit: Medhin Paolos

 Tre donne eritree in abito da cerimonia per un matrimonio, Milano, 1983

Credito Fotografico: Vito Scifo e Lalla Golderer, Eritrei a Milano, Archivio di Etnografia e Storia Sociale – Regione Lombardia 

Il Viaggio

“Mi ritrovai da una vita tranquilla, ‘asmarina’, di quartiere, a Milano, all’inizio dell’inverno, con la gente che parlava e le usciva il vapore della bocca dal freddo (ride). Ho pianto. Dov’è il sole? Dove mi trovo?”, ricorda così Ainom il primo impatto del suo arrivo in Italia, nel 1973. Era arrivata a soli 15 anni dalla capitale dell’Eritrea, Asmara. “È stato difficile”, racconta.

Tra tutte le difficoltà, la principale è stata quella di superare la nostalgia dei suoi otto fratelli minori che erano rimasti nella sua città natale. “Dicevo: ‘Voglio tornare’ piangendo. Mi mancavano i miei fratelli, era la prima volta che mi allontanavo”, spiega Ainom. Solo più tardi i suoi fratelli l’hanno seguita.

Ainom Maricos e sua madre, 1973

Ainom Maricos e sua madre, 1973

La Storia

La famiglia di Ainom era tra le poche che arrivarono in Italia dall’Eritrea negli Anni Settanta. In quel periodo, il numero di comunità di migranti in Italia, soprattutto eritrei, era piccolo. È difficile precisare il numero esatto, poiché il primo censimento della popolazione migrante in Italia è stato realizzato solo nel 1981. Ma Ainom afferma che la comunità eritrea a Milano “negli Anni ’70 era una presenza che non arrivava nemmeno a 200 persone”.

Oggi i migranti eritrei sono ancora un numero esiguo in Italia. Secondo le stime dell’Istat del 2019, gli eritrei sono circa 8.500 su un totale di 5.300.000 stranieri in Italia (0,16%). La metà di loro si trova nelle città di Milano e Roma. Quelli che hanno ottenuto la cittadinanza italiana, però, non sono inclusi nella demografia della popolazione eritrea.

Indipendentemente dal loro numero, gli eritrei hanno forti legami storici con l’Italia a causa dei quasi sei decenni di dominio coloniale italiano. Dal 1882 al 1941, l’Italia ha colonizzato l’Eritrea. Ainom ricorda bene ciò che suo padre le ha raccontato dell’era fascista, compresa l’implementazione delle leggi razziali.

“Mio padre, che ha sempre lavorato con gli italiani, mi diceva che aveva un permesso speciale per entrare nella città alta (il centro di Asmara), dove c’erano i bianchi, i loro alberghi, i loro ristoranti, le loro case. C’erano gli autobus per i locali, gli indigeni come li chiamavano loro, e altri per loro (gli italiani). Il cinema era nella periferia per la gente del posto e in centro per gli italiani”. Un chiaro esempio di apartheid.

Le strutture sociali inique hanno accompagnato Ainom anche durante la sua giovinezza.

Ainom Maricos, 1974

 

Ainom Maricos, 1974

Lo Stabilirsi

I suoi genitori erano partiti un anno prima per l’Italia. Dopo i disordini causati dalla guerra d’indipendenza Eritrea (1961-1991), nel 1973, la situazione politica stava peggiorando sotto l’occupazione etiope. Così, i genitori di Ainom le organizzarono un modo per ottenere “un documento”. L’ex consigliera ha saputo che avrebbe dovuto andarsene solo due giorni prima della partenza. “Ero minorenne, non potevo uscire. Eravamo sotto l’occupazione dell’Etiopia. Questo documento diceva che avevo 19 anni e così sono uscita”.

Ainom ricorda che era una delle più giovani tra le donne eritree che arrivavano a Milano in quel periodo. Molte di queste donne erano impiegate come collaboratrici domestiche per famiglie milanesi benestanti, vivendo nella casa in cui lavoravano in condizioni quasi di schiavitù, come denuncia l’assistente sociale: “…senza una vita sociale, limitandosi ad avere, il giovedì e la domenica, il pomeriggio di libertà, e a volte dovevano tornare a servire la cena”.

Ainom era una delle poche che sapeva leggere e scrivere. Così, aveva il compito di leggere tutte le lettere che arrivavano dall’Eritrea e di scrivere le risposte. “Per me erano giorni di frustrazione, passare così tutto quel tempo, perché mio padre ci teneva, diceva: ‘devi aiutarle!’ [le donne eritree]”.

A quel tempo, le donne eritree, capoverdiane e filippine erano pioniere nel settore del lavoro domestico transnazionale in Italia. Oggi, nel settore domestico in Italia, l’88% della forza lavoro è costituita da donne, di cui il 74% sono migranti. Molte di loro, infatti, trovano lavoro solo nel settore domestico. Ma il viaggio di Ainom l’ha portata a percorrere altre strade.

Protesto Black Lives Matter, Roma, 2020

Credito Fotografico: ©Alessandra Notaro

 

Protesto Black Lives Matter, Roma, 2020

Credito Fotografico: ©Alessandra Notaro

La Pelle Nera

“Negli anni Settanta in Italia non si può parlare di razzismo”, afferma Ainom. È dalla metà degli anni Ottanta che ha cominciato ad avvertirlo. “Nel contesto generale, quando è arrivato davvero un numero ingente, quella migrazione di massa a partire dal 1984-85. Erano lavoratori stagionali marocchini, provenienti da tutta la faccia del Maghreb: li trovavi sulle spiagge e dappertutto, che vendevano di tutto. Anche i senegalesi che occupavano interi marciapiedi. Erano laboriosi, ma non avevano gli strumenti e i documenti per lavorare regolarmente. Quindi questa presenza visibile, in quel momento, cominciò a urtare la popolazione, come se si sentisse improvvisamente invasa”.

Da quel momento fino a oggi, le persone di colore e le comunità di migranti in Italia si sono trovate ad affrontare una lotta quotidiana, perché la loro presenza è sempre messa in discussione.

Nel suo percorso di attivista politica, Ainom è diventata dirigente del Movimento di Liberazione dell’Eritrea e rappresentante della Rete delle Associazioni di Donne Eritree in Italia. Dal 1996 al 2001 è stata consigliera comunale a Milano. Anche in seguito ha ricoperto incarichi nel mondo associativo e cooperativo in Italia. “Mi rendo conto che sono una delle vecchie che attraverso l’attivismo politico per riaffermare i diritti, mi sono spesa moltissimo insieme ad altri miei compagni e compagne. Abbiamo creato reti, associazioni, aggregazione, reti nazionali. Abbiamo fatto di tutto per dire che esistiamo”.

Tuttavia, Ainom ritiene che, a prescindere dalle loro storie ed esperienze personali, dal loro contributo positivo al Paese e dal rispetto delle leggi, le comunità nere si trovino ad affrontare una discriminazione razziale sistemica in diversi ambiti. “Semplicemente perché sei portatore di questo colore della pelle tutti ti mettono in discussione. È come se dovessi lottare ogni giorno per riaffermare la tua adesione a questo Paese, alle sue regole. Diventa faticoso”.

Gli Sguardi

Parlando del colore della pelle e della sua esperienza di afro-discendente in Italia, la regista italo-eritrea Medhin ricorda soprattutto “lo sguardo costante, non necessariamente negativo, che ti segue ovunque”. Anche mentre fa cose banali, come comprare il latte o bere un bicchiere di vino con gli amici “Perché gli italiani non bianchi sono tutt’ora visti come un corpo estraneo”.

Tra gli episodi della sua infanzia, le sono rimasti particolarmente impressi i tempi in cui, negli anni ’80, andava nei campi estivi per bambini organizzati dalla comunità eritrea. Quelle colonie estive duravano poche settimane e portavano i bambini nelle tipiche località di villeggiatura italiane, come il mare o la montagna. I bambini eritrei frequentavano gli stessi luoghi dei bambini italiani caucasici. Medhin ricorda come i turisti, che erano lì in vacanza, si sorprendevano nel vedere così tanti bambini neri tutti insieme e si fermavano a fotografarli.

Inoltre, la regista ripercorre le volte in cui, mentre frequentava le elementari, gli studenti universitari che scrivevano una tesi sulle migrazioni andavano nella sua scuola, situata in un quartiere con un’alta presenza di stranieri, e chiedevano ai figli dei migranti se si identificassero più come italiani o come stranieri.

Le stesse domande che si è sentita ripetere molte altre volte crescendo. “C’è sempre una richiesta di giustificazione: la domanda che non viene fatta ma che io sento è ‘perché sei qui?’”, spiega Medhin, sottolineando che di fatto è l’immigrazione delle persone non bianche a essere costantemente sotto scrutinio.

“Un immigrato di pelle bianca, nel momento in cui riuscirà a parlare bene l’italiano e a non essere riconoscibile come da fuori, sarà lasciato in pace. Io potrei rimanere in Italia per altre cinque generazioni, i figli dei figli dei miei figli saranno visibilmente qualcos’altro sempre. Finché non ci sarà questo scatto culturale più inclusivo, le persone nere saranno sempre viste come altro”.

Quello sguardo che la segue sempre, ora che è cresciuta, diventa talvolta “esotizzante”. In Italia esiste un luogo comune che vuole le donne somale, eritree ed etiopi come “le più belle d’Africa”. “Ogni volta che l’ho sentito dire su di me o su altre persone, mi si è sempre rivoltato lo stomaco. Non riesco mai ad accettare questa frase come un complimento, perché ne riconosco le origini coloniali e una storia crudele per la popolazione eritrea. Che è il motivo per cui sono nata in Italia”, denuncia Medhin.

Il passato coloniale dell’Italia viene negato. Ad esempio, Ainom spiega che l’esercito italiano ha utilizzato il “gas nervino” che ha sterminato interi villaggi. Ma queste pratiche oggi sono negate dagli italiani e omesse nei libri di scuola. L’ex consigliera ritiene che ci sia stata una rimozione della storia, perciò il fascismo coloniale è vissuto quasi con nostalgia.

Pur riconoscendo che gli italiani hanno modernizzato Asmara, precisa: “Loro [gli italiani] hanno fatto i progetti, e questo li abilita a dimenticare tutto il resto… Come se fossero venuti lì [in Eritrea] per civilizzare un popolo selvaggio e per costruire [il Paese]. Che poi sono stati i nostri nonni, resi schiavi, che hanno costruito!”

Medhin Paolos

 

Medhin Paolos

Le Identità

Consapevole delle sue radici eritree, della sua lingua, cultura, storia e identità, Ainom dice: “Sono molto fiera di quello che sono”. Tuttavia, non è sicura per le future generazioni di italiani di origine africana. Nonostante siano nate in Italia e l’italiano sia la loro prima lingua, questo continuo mettere in discussione la loro identità mina la loro autostima. “I nostri figli non hanno questi anticorpi”, si preoccupa Ainom.

In effetti, l’identità è un tema che ha caratterizzato i primi anni di vita di Medhin. Nel 1991 si è conclusa la trentennale guerra d’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia e l’anno successivo la regista, allora undicenne, ha potuto visitare la città natale dei suoi genitori, Asmara. La visita ha avuto un impatto sostanziale su di lei. “Quella è stata la prima volta in cui mi sono trovata in un luogo dove tutti erano neri e tutti somigliavano a me”, ricorda Medhin.

Ma presto la sua gioia si è attenuata. Era partita convinta di tornare a casa, invece si è sentita come “un’estranea” ancora una volta. “Nonostante la tranquillità mentale di essere in un fiume di neritudine, allo stesso tempo come persona cresciuta in Europa ero assolutamente riconoscibile dal modo in cui mi vestivo e muovevo”.

Un punto di svolta che si è rivelato fondamentale nel suo percorso. “Questa aspettativa mancata mi ha fatto fare uno scatto mentale: basta lasciare agli altri la responsabilità di definirmi. E anche basta cercare di incastrarmi in queste definizioni preconcette di chi si può definire eritreo, italiano, europeo e africano!”, esclama Medhin. È in quel momento che ha iniziato a capire di far parte di “una terra di mezzo piena di persone con identità miste” e con esperienze simili alle sue.

Questa esperienza l’ha aiutata a plasmare la sua identità, che è “in evoluzione e in costante ricerca di equilibrio, come è naturale quando fai parte di due culture”. Oggi la sua identità è composta di diversi elementi appartenenti sia alla tradizione italiana sia a quella eritrea. Elementi in alcuni casi persi e poi ritrovati, come nel caso della sua lingua materna.

Il tigrino è stata la prima lingua che Medhin ha imparato da bambina, ma l’ha perso crescendo quando l’italiano è diventato la lingua prevalente. E ora lo sta recuperando da adulta. “Il rapporto che ho con la mia lingua d’origine è per me un tasto dolente: sento come una colpa il fatto di non parlarla bene”, confessa Medhin. I suoi sforzi per recuperare il tigrino si intrecciano con l’attivismo per i diritti dei migranti. La regista si è sentita in dovere di parlare il tigrino per aiutare i migranti eritrei arrivati a Milano negli ultimi anni.

Secondo i dati dell’Eurostat, negli ultimi 10 anni (2010-2019) 19.500 eritrei hanno chiesto asilo politico in Italia. E questa è solo una parte delle migliaia di migranti eritrei che arrivano ogni anno in Italia, prima di proseguire il viaggio per chiedere asilo in altri Paesi europei.

Medhin Paolos

 

Medhin Paolos

La Cittadina

Nonostante tutti gli alti e bassi del suo rapporto con l’Italia, Medhin è pienamente consapevole di tutte le opportunità che ha potuto cogliere grazie alla cittadinanza italiana, dai suoi tour con la band musicale italiana Fiamma Fumana (1999-2009) in altri paesi europei, negli Stati Uniti e in Canada, alla sua borsa di studio ad Harvard. “La libertà di movimento è probabilmente uno dei problemi più grandi che abbiamo a livello globale: io col passaporto italiano sono qui a Boston; io, la stessa identica persona, con il passaporto eritreo non potrei”, sottolinea la regista.

Eppure, il ricordo di quando, nel 1998, le è stata concessa la cittadinanza italiana all’età di 18 anni è adombrato. “Mi ricordo che dopo aver fatto il giuramento, la signora che era in rappresentanza del Comune di Milano si alzò e mi disse: ‘Benvenuta in Italia’”. Questo episodio è rimasto impresso a Medhin, che è nata e cresciuta a Milano. “Lì ho capito che mancano le basi. Anche nella sua gentilezza, lei ha ribadito che io ero un’altra cosa”.

Sono le micro aggressioni come questa il problema. “Nel momento in cui c’è una struttura che fa sentire un’altra persona come un ospite, è finita”, spiega la regista, riferendosi alla legge sulla cittadinanza in Italia.

Secondo la normativa vigente, chi nasce in Italia da genitori stranieri rimane straniero fino all’età di diciotto anni, e durante questo periodo deve aver “risieduto legalmente senza interruzione” nel Paese per poter richiedere la cittadinanza italiana entro i diciannove anni. La situazione è persino peggiore per i figli di stranieri arrivati in Italia durante l’infanzia. Per loro non è previsto alcun percorso agevolato: per diventare cittadini italiani dovranno seguire, a partire dai 18 anni, lo stesso percorso burocratico degli immigrati stranieri adulti, cioè risiedere e lavorare regolarmente nel Paese per almeno dieci anni.

Dopo anni di battaglie da parte degli attivisti, tra cui la “Rete G2” di Medhin, nel 2015 è stato approvato dalla Camera dei Deputati un progetto di riforma dell’attuale legge. La riforma mirava a facilitare il percorso verso la cittadinanza per i figli dei migranti nati in Italia o arrivati in Italia da bambini. Circa 800.000 minori, figli di stranieri, avrebbero beneficiato dalla riforma. Tuttavia, dopo due anni di iter parlamentari, il disegno di legge è stato affossato dal Senato nel 2017.

“Mi chiedo, dal punto di vista dell’identità, che tipo di problemi e di crisi inculchi in questi giovani?”, si interroga Ainom, preoccupata per l’ambiente politico italiano. “Mi ha colpito mio figlio, che oggi ha trent’anni, e mi ha detto: ‘Mamma, dimentica gli anni ’70 che hai conosciuto, dimentica gli anni ’80. Non c’è niente. Questo è una società difficile’. Per me è un pugno al cuore”.

Dimostrazione dei lavoratori stranieri, Roma, 2006

Credito Fotografico: ©David Shay

Dimostrazione dei lavoratori stranieri, Roma, 2006

Credito Fotografico: ©David Shay

Le Leggi

L’infruttuoso tentativo di riformare la legge sulla cittadinanza italiana non è l’unica fonte di delusione per Ainom. Ricorda tutte le cose che ha fatto per sostenere l’uguaglianza razziale in Italia e come invece oggi il Paese faccia i conti con una reazione negativa sui diritti dei migranti e dei rifugiati. “Con la legge Bossi-Fini siamo arrivati al culmine, dove la persona è una presenza con una data di scadenza”, spiega frustrata Ainom, riferendosi alla parte della legge che vincola il soggiorno dei migranti a un contratto di lavoro. 

Ma questa è solo una delle severe misure imposte da questa norma, in vigore da quasi vent’anni. Bossi-Fini (luglio 2002) è una legge sull’immigrazione molto dura, che criminalizza l’immigrazione e accentua le tensioni razziali. In base a questa legge, un immigrato fermato senza permesso di soggiorno sarà accompagnato alla frontiera ed espulso immediatamente. La norma ha aumentato le deportazioni, gli arresti e le detenzioni, anche per i richiedenti asilo in attesa che la loro domanda venga esaminata. Ciò viola l’articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che recita: “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza”.

Facendo seguito a una serie di provvedimenti, voluti dalla destra sovranista in violazione dei principi internazionali sui diritti umani, il Decreto Sicurezza (24 settembre 2018) è un’ulteriore legge che prende di mira i migranti. Questa norma nega l’accesso ai porti italiani alle navi di soccorso delle ONG e abolisce forme essenziali di protezione dei migranti, rendendone più facile l’espulsione.

La connotazione dei migranti e delle comunità africane come problemi è una delle tante facce del razzismo in Italia.

Il Razzismo

“Il razzismo in Italia oggi crede di essere nuovo e invece non lo è”, sottolinea Medhin, riferendosi alle radici da cui si sviluppa: il colonialismo. “È un tipo di mentalità che si è riprodotto sotto terra fino ai giorni nostri”.

Per risolvere il problema del razzismo in Italia, secondo la regista, serve in primo luogo la conoscenza, per non avere paura del diverso. “A livello culturale, bisogna lasciare un’apertura per non leggere l’altro immediatamente come un pericolo”. La giovane attivista si augura un cambiamento radicale e strutturale di tutti gli apparati, a tutti i livelli: scolastico, carcerario, sanitario e in ogni altra istituzione pubblica.

Ad esempio, vorrebbe che i profondi legami storici tra l’Eritrea e l’Italia fossero ufficialmente riconosciuti e che il passato coloniale italiano fosse discusso apertamente, a partire dalla scuola. Inoltre, vorrebbe che lo facessero studiosi di diverse origini, non solo europei, in modo che la prospettiva non rimanga eurocentrica. È un cambiamento che ha iniziato a notare negli ultimi anni, ma che progredisce molto lentamente.

Inoltre, Medhin evidenzia che in Italia mancano le parole adeguate per discutere di razza, discriminazioni, culture diverse e migrazioni. Ad esempio, spiega che nel corso degli anni alcune parole come “razza” e “neri” sono state bollate come irrispettose nel contesto italiano. Con il risultato che molti italiani dicono “persone di colore” quando in realtà intendono “persone nere”.

Ma, molto più spesso, temi come razza e razzismo vengono direttamente evitati, nascosti sotto il tappeto. “Parlare di questi argomenti ci porterebbe dritti dritti a parlare di colonialismo. È un delicato equilibrio tra politicamente corretto, censura e verità. Un equilibrio che gli italiani non padroneggiano”.

La regista sostiene che una conversazione più onesta e approfondita sulla razza è attesa da tempo in Italia e che porterebbe vantaggi non trascurabili, a partire da una legge sull’immigrazione più giusta. “La lingua è uno strumento potente che ci permette di essere in sintonia o di alienarci a vicenda”, ribadisce Medhin e aggiunge: “Se ti mancano le parole, non puoi parlare”. Invece, la attivista è convinta dell’importanza del confronto e del dialogo. “È importante parlarsi. Forse questa è la soluzione al razzismo: trovare i punti di incontro e non avere paura delle differenze”.

Gruppo di donne eritree, Milano, 1983

Credito Fotografico:

Vito Scifo e Lalla Golderer, Eritrei a Milano Archivio di Etnografia e Storia Sociale – Regione Lombardia

Gruppo di donne eritree, Milano, 1983

Credito Fotografico: Vito Scifo e Lalla Golderer, Eritrei a Milano – Archivio di Etnografia e Storia Sociale – Regione Lombardia

La Speranza

Alla domanda sulle possibili azioni per sfidare il razzismo in Italia, Ainom risponde ricordando le molte cose già fatte. “Sono stata consulente per molti anni di Livia Turco (politica italiana membro del PD), all’epoca ministra per gli Affari Sociali, e abbiamo elaborato progetti sul diritto di cittadinanza e sul diritto di voto. Sembravano arrivare, mancava un piccolo passo e poi i documenti venivano insabbiati. E ancora oggi si fa fatica”, spiega l’ex consigliera.

Racconta di aver fatto un appello anche contro la legge Bossi-Fini. “Avevo raccolto migliaia e migliaia di firme, ho aggregato sia amiche italiane che straniere”. Ma c’è ancora molto da fare. “A questo Paese serve un ripensamento serio sul tema dell’immigrazione. A cominciare dal fatto che un bambino nato in Italia è italiano. Va ripensato tutto il tema dell’immigrazione in chiave costruttiva, non distruttiva come è stato fatto”.

Ainom crede anche che la natura stessa sistemerà le cose: “I nati qui, quelli che acquisiscono la cittadinanza italiana in modo naturale, fra 15-20 anni saranno una presenza veramente importante e determinante in questo Paese”.

Nonostante tutti i problemi, infatti, Medhin sa bene quale Paese chiamare casa. “Dovunque mi ritroverò a mettere radici, l’Italia rimarrà la mia casa. L’Eritrea sarà sempre la casa mancata in qualche modo, la casa della famiglia, quella radice che rimane sempre un’incognita anche se cerco di conoscerla sempre di più”.

Anche Ainom sa perché è rimasta in Italia: “Quei pochi rumorosi, dannosi [politici di estrema destra] sono visibili, ma c’è un’Italia attiva, sana, forse meno rumorosa… una società vasta, incredibile, veramente sana. È uno dei motivi per cui rimaniamo in questo Paese a testa alta”. Ainom ricorda ancora una volta il tributo che ha ricevuto: una strada con il suo nome.

Alla fine, con un sorriso, conclude: “Insieme, forse, possiamo incidere per un cambiamento positivo. Quindi sono tra delusa e speranzosa”.

Questo articolo è supportato dal progetto pilota Stars4Media.